I labirinti dello sguardo. Testo di Julian Zugazagoitia
Una de las funciones del Arte es legar un ilusorio ayer a la memoria de los hombres
Jorge Luis Borges
La nostalgia per la Bellezza perduta
L’arte di Mitoraj persegue la ricerca di un ideale millenario che la nostra civiltà ha sempre considerato una delle sue espressioni più alte: quello della bellezza tradotta da una certa concezione del corpo umano. Da Fidia e Prassitele a Rodin, passando da Michelangelo e Canova, la scultura esprime, tramite la perfezione dell’architettura umana, la presenza del divino.
L’opera di Mitoraj si evolve attorno alla riconquista di una forma di bellezza considerata desueta da quei modernisti la cui parola d’ordine potrebbe riassumersi con la battuta dei futuristi quando pretendevano di soppiantare la Nike di Samotracia con una macchina da corsa. Fin dai suoi esordi, negli anni Settanta, il lavoro di Mitoraj si muove ai margini delle correnti dominanti quale l’arte concettuale, l’arte minimalista o i diversi approcci dell’arte astratta. Egli è stato, erroneamente, associato ai Nouveaux réalistes per i casi della vita, più che per una qualsiasi affinità stilistica o generazionale. Tuttavia, quando negli anni Ottanta assistiamo a un rit6rno alla figurazione, alla rivalorizzazione del passato e della mitologia, scopriamo che la sua opera sfugge alla tendenza alla quale avremmo voluto associarlo e, per contrasto, rivela tutta la sua specificità; con determinazione e pazienza essa si erige al di là delle mode, ai margini dei movimenti in voga e obbedisce unicamente alla propria logica intrinseca. Da quel momento in poi la sua pertinenza si misura sulla sua coerenza e sulla resistenza a farsi intrappolare in una classificazione prestabilita.
Uno sguardo all’insieme del lavoro dell’artista rivelala strana omogeneità che unisce le sculture concepite nell’arco di un quarto di secolo. A prima vista l’opera sorprende per il suo sviluppo organico, per la sua apparente immobilità, per la sua costante epurazione rispetto a preoccupazioni ricorrenti. Una retrospettiva non mostra quei bruschi cambiamenti, quei subitanei ripensamenti, quelle rotture radicali, che si amano individuare nella carriera degli artisti. L’opera di Mitoraj dà l’impressione di esistere da sempre e, tuttavia, ogni nuova scultura semina nuove basi, apre nuove piste.
Lo sviluppo organico della sua opera ci induce a pensare che Mitoraj porta in sé un mondo in cui coesistono già le sue sculture, che abitano in lui, intrattenendo tra loro conversazioni animate. Solo il caso sembra dettare quale di queste sculture che vivono nell’immaginazione dell’artista, debba venire alla luce per prima sotto la pressione delle sue abili mani. O forse al contrario sono le opere già realizzate che costringono Mitoraj a materializzare questa o quella fra le loro sorelle. Poco a poco l’atelier si popola di presenze che proseguono, alla luce del sole, le conversazioni iniziate già da tempo.
L’aria di famiglia delle sculture che abitano l’atelier dell’artista è intrinsecamente dettata da un ideale classico presente in tutte. Mitoraj attinge dal mondo greco-romano i valori che insuffla nelle sue creazioni. Ed esse, alla soglia del terzo millennio, ci invitano a ripensare l’adeguamento platonico del Bello, del Bene e del Vero.
La giustezza espressiva delle sue sculture ci mette in contatto con alcune nozioni di estetica ellenica. La grandezza dei personaggi sta nell’incarnazione dei valori morali che evocano, valori eroici predicati dagli antichi greci. La figura umana ne esce altamente valorizzata poiché porta in sé l’impronta dello sforzo per superarsi. Ma se è idealizzata, questo non significa che sia divinizzata; al contrario: la mitologia ci insegna la superiorità morale dell’uomo rispetto agli dei. Questi si lasciano andare all’intemperanza, fanno baldoria nei baccanali olimpici e ordiscono intrighi indegni del loro rango. L’uomo, al contrario, può accedere a una forma di trascendenza perché ha saputo confrontarsi con la morte. Solo la coscienza morale dell’uomo, con la sua misura, la sua rettitudine e la sua giustezza, può pretendere alla perfezione.
L’artista è avvantaggiato nel compiere questo destino. L’arte gli serve per catturare l’aspetto trascendentale dell’umanità e, nel realizzare le sue opere, egli tende a superare se stesso. In questo senso l’artista, con la sua coscienza estetica, diventa l’esempio privilegiato dell’aspirazione alla trascendenza. Ciò che si tratta di catturare tramite la scultura è il corpo dominato dallo spirito, il momento ineffabile di equilibrio perfetto in cui il bello, il buono e il vero formano un tutt’uno.
Tuttavia, se le opere di Mitoraj condividono una stessa estetica, l’ideale che le anima resta soggiacente, come un orizzonte sempre in fuga. Nell’introdurre delle crepe nelle sue sculture o nel consegnarle nel loro stato frammentario, l’artista ci chiede se è possibile riattualizzare quei valori nel nostro mondo contemporaneo.
Così, quando contempliamo un’opera come Orizzonte, 1986, capiamo che al di là del modernismo, Mitoraj cerca di riallacciarsi a una filiazione classica che ormai somiglia a un terreno vago devastato dalla guerra. Il suo sguardo, rispetto al passato, non è nostalgico bensì basato sulla scommessa di insufflare l’ideale di bellezza nell’ambiente quotidiano. La sua ricerca interroga l’atteggiamento modernista: il suo odio iconoclasta per le tradizioni, il suo mettere in causa le radici che ci costituiscono. Il palio in gioco è il nostro rapporto con le fonti della nostra civiltà, il ponte che ci ricollega con il fondo comune dell’identità occidentale. Le sue opere dicono: che diritto ha l’antico di concepire il futuro? In filosofia leggiamo Empedocle e Democrito per pensare il mondo; un sapere non scaccia l’altro; anzi, si accumulano. Uno spirito tanto moderno come quello di Heidegger si affida ai presocratici per portare avanti la propria riflessione. Perché non potrebbe essere possibile anche nelle arti visive? È a questa domanda che l’opera di Mitoraj tenta di dare una risposta.
Il frammento, lo sguardo attivo e il mito in azione
Tuttavia, è ovvio che avvicinarsi al passato non può essere che un atto mutilato e frammentario. L’ambizione di riallacciarvisi indica soprattutto lo stato del nostro sapere e delle nostre aspirazioni rispetto alla mancanza di coesione del mondo nel quale viviamo. Tenuto conto della mancanza di ideale dominante, l’universo classico, leggendario e mitico, appare come un valore rifugio per questo secolo ormai agli scorci.
Uno sguardo attento su un’opera come Torso di Centauro, 1992, ci permette di capire quanto qualsiasi ricostituzione del passato sia un atto essenzialmente creativo. Davanti a questo torso siamo in presenza di un frammento dove curiosamente vengono ad arenarsi delle teste su quello che sembra essere la corazza di un guerriero. Queste piccole teste e le “finestre” che punteggiano la superficie dell’opera sono decorazioni o forse i frammenti di un’altra opera? Non si tratta di una specie di mise en abîme della creazione? Ogni frammento rimanda a un’opera che ci sfugge nella sua totalità ma la cui probabile esistenza ci viene indicata dalla scultura stessa. In questo modo ogni frammento evoca sculture più grandi o più piccole che a loro volta ne evocano altre e così via, all’infinito.
L’uso della frammentazione e del collage è una pratica moderna e ricorda Rodin che ne sviluppò la poetica creatrice. In Rodin un’opera ne generava molte altre, sempre rinnovate con assemblaggi insoliti. Quando Mitoraj coltiva il gusto del frammento, evoca l’incompiutezza voluta dalla sua mano di artista ma anche il suo impegno verso un’ipotetica dimensione archeologica dell’opera.
La perfezione lacerata del frammento manifesta l’incapacità reale a ricreare l’universo classico scomparso per sempre. Inoltre invita lo spettatore a completare il lavoro, a ultimare il frammento tramite la saggezza dello sguardo. La scultura ci addita un camminò, evoca il peso di un’eredità e ci costringe ad attingere nel nostro immaginario i miti e le leggende che serviranno a completarla. Lo spettatore diventa attore di fronte a queste sculture suggestive e mute.
Le opere intrecciano una rete di riferimenti, pongono e perseguono un iconografia sempre viva che, nell’esortarci a riattualizzarla, ci invita a modellare la mitologia di domani. Questo è tanto più vero che Mitoraj non intende rappresentare personaggi tratti solo da una lettura dei classici. Al contrario, modella i suoi nuovi eroi come una sintesi delle proprie ossessioni. Così sono nati lavori che sembrano tratti dalle favole antiche ma che in realtà provengono dall’immaginazione dell’artista. Con Ikaria, 1989, sorella o moglie del celebre figlio di Minosse, o i Cacciatori di Gorgone, 1986, e tante altre ancora, vediamo prendere corpo la mitologia personale dell’artista.
Il gusto di fabbricare storie ci ricorda i romantici e la loro passione per le rovine, per le tracce delle intemperie e i segni del tempo trascorso. Qui lo sguardo è sollecitato come testimone di una scoperta archeologica o per autentificare l’abilità del simulacro. L’artista in un’opera come Terra amara, 1990, priva di quelle superfici perfette e immacolate, gioca con gli effetti possibili delle devastazioni naturali. L’illusione porta a ricreare ciò che avrebbero prodotto secoli di seppellimento nella terra o nell’oceano. Ancora una volta ciò che è in ballo è il nostro rapporto sempre mutilato con il passato e la sua abilità di artefice. In questo caso il frammento rivela la mano e l’abilità dello scultore, non il talento aleatorio del tempo.
Lo svelamento della Verità
La scoperta del simulacro come terreno creativo ci indirizza su un’altra strada di questo labirinto dello sguardo. Sorge il dubbio che la possibile evoluzione dell’opera di Mitoraj sia in realtà la ricerca di un’altra componente dell’equazione classica: la Verità.
E se nelle sue ricostituzioni di un passato aleatorio, ciò che Mitoraj cercava non era tanto la bellezza quanto la rivelazione della verità? Potremmo allora tentare un altro percorso. Partiremmo dalle prime figure che sono per lo più bendate. Un volto, come Eclisse, 1979, è avvolto da bende che fanno pensare alle mummie egizie o al Cristo velato, 1753, di Giuseppe Sammartino nella cappella San Severo di Napoli. Il paradosso sta nel fatto che l’opera è rivelata proprio da ciò che la occulta. Le bende che lo circondano definiscono l’involucro esterno del volto e contemporaneamente lo privano di qualsiasi espressione concreta. Un inquietante potere evocatore scaturisce da questi lavori, che ricordano alcune pratiche surrealiste.
Quando i volti velati stavano per diventare il marchio di Mitoraj, abbiamo assistito alla loro lenta trasformazione. A poco a poco le bende sono cadute e hanno lasciato apparire i tratti un tempo protetti. La Testa iberica, 1989, si lascia intravedere spuntando dai lembi ancora visibili. La scomparsa delle bende svelerà volti dai tratti perfetti, sguardi persi all’orizzonte, bocche carnose finemente disegnate, chiuse sotto il peso di un pensiero profondo.
In Donne I, 1993, si percepisce chiaramente il movimento pendolare tra occultamento e rivelazione. Sono riuniti tre busti di donna, la loro somiglianza fa indovinare un personaggio unico. Non si tratta del tema classico delle tre Grazie, ma piuttosto di tre stati di coscienza. A sinistra, una testa è completamente bendata: l’espressione mascherata non lascia trapelare alcuna emozione. Al centro, un volto liberato dagli intralci che occultano la prima ragazza mostra la sua giovane bellezza. Lacerata da uno sfregio sulla guancia, chiude gli occhi. È in preda a un’impassibile meditazione o è il suo ultimo modo di trincerarsi nell’occultamento? Cosa ci dice la terza figura? Agli occhi aperti, certamente ultima tappa della rivelazione, corrisponde una testa priva della calotta cranica, vuota. Che senso dare all’allegoria? Le interpretazioni sono molteplici: ognuno di noi può proiettare i propri fantasmi sulla materia dell’opera.
Se le bende tendono a scomparire per favorire una rivelazione totale della figura, alcuni segni le ricordano ancora. Hanno subito un’evoluzione e sorgono talvolta come elementi grafici, come le scanalature che attraversano il volto di Tindaro, 1990. Esse subiscono una metamorfosi e diventano tratti che fanno riferimento alla pratica stessa della struttura, tracce che segnano dei punti di congiunzione con sculture che enigmaticamente non esistono più.
Uno scultore innanzitutto
Questo incorporare elementi tratti dal linguaggio della scultura nell’opera stessa, come mortase e tenoni che servono a incastrare le diverse parti di un marmo o come i resti della fusione di un bronzo ancora non levigati per esser sfruttati espressivamente nell’opera finale, ci fa capire l’importanza che Mitoraj attribuisce al processo di creazione e al lavoro sulla materia.
L’artista lascia trapelare sempre di più la sua pratica di scultore. Le sue opere portano nobilmente, come in Rodin, le tracce degli strumenti, della mano, dei procedimenti che le hanno plasmate. I segni dei lavori non sono sempre cancellati, i tenoni e le mortase non sono sistematicamente dissimulati: anzi sono diventati elementi della scultura stessa.
Se le opere fatte dalla mano dell’uomo svelano la creazione, Mitoraj le sfrutta in quanto linguaggio proprio e specifico dell’arte. Lasciando trapelare le tracce di fabbricazione, dà al processo di fabbricazione uno statuto fondatore dell’opera. In questo senso Mitoraj è innanzitutto uno scultore, particolarmente sensibile alle qualità dei materiali e alla loro espressione segreta. Pur avendo cominciato dalla pittura, è stata la scultura ad affascinarlo per davvero.
Non sorprende dunque che voglia esplorare attraverso le sue opere la diversità dei materiali della scultura: terracotta, marmo, bronzo.., senza una specifica gerarchia, ma sempre con lo stesso piacere sensuale di trasformare la materia.
I processi di fabbricazione, contrariamente a quanto sosteneva Walter Benjamin, non cancellano l’aura dell’opera. Oggi, nell’epoca della riproduzione numerica, abbiamo preso coscienza del carattere ancora molto artigianale della realizzazione di un bronzo o della trasposizione di una scultura in terracotta in una scultura in marmo. Tutte le opere portano i segni irripetibili della fabbricazione, le patine singolari... Lo scarto tra diversi lavori di una stessa serie ci fa capire l’importanza delle imperfezioni e degli accidenti della riproduzione meccanica, avatars che rendono a modo loro unica ogni realizzazione.
Infatti constatiamo che ogni opera reclama il suo specifico materiale e siamo sorpresi nel vedere come una stessa scultura possa avere anime differenti a seconda della materia o della scala nella quale è stata eseguita. Che si tratti di marmo, terracotta o bronzo, sentiamo il piacere e l’abilità di plasmare e sfruttare le caratteristiche e le proprietà di ciascuna materia.
Con il marmo, il gioco sta nel lavoro delle tessiture, delle superfici levigate che contrastano talvolta con le parti rugose. Mitoraj si diletta con le prime come con una matita con cui realizza i tratteggi che segnano le profondità, le materie...
Il suo senso dei colori è esacerbato nel lavoro sul bronzo. Ogni scultura riceve una patina unica il cui segreto è conservato gelosamente. Così un certo blu solforato è diventato una delle tinte specifiche e inimitabili di Mitoraj. Il colore aggiunge una dimensione tattile all’opera che cambia e si distingue da eventuali altre versioni per la qualità irriproducibile di ogni patina.
Scopriamo dunque nel vedere una stessa opera in materiali diversi o con patine differenti, come ciò che pensavamo essere identico diventa unico. Ogni lavoro ha la propria anima e assume aspetti singolari. Vedere nella stessa mostra diverse sculture della medesima serie è l’occasione per misurare queste piccole varianti così ineffabili eppure così poetiche. Nel confrontare le opere di Mitoraj scopriamo la sottigliezza del suo lavoro e la pertinenza sempre rinnovata del suo gesto artistico.
Il “Giardino delle Muse” o i segreti del labirinto
Con questa esposizione Mitoraj ci istiga a operare il confronto. Ci invita ad aprire le porte di un giardino immaginario abitato dalle sue sculture che sono come tanti punti di riferimento e di sfide al tempo.
Il titolo Giardino delle Muse vorrebbe farci credere che si tratta di un luogo frequentato in segreto dalle muse, un giardino in cui l’artista trova la sua ispirazione incontrando, a spasso fra i viali ombreggiati, Calliope, Erato o una qualsiasi delle figlie di Mnemosine. Tuttavia, dopo poco, capiamo che la realtà è tutt’altra: Mitoraj nello schiudere le porte della sua arte ci trascina con sé nel cuore stesso del labirinto.
La leggendaria costruzione del re Minosse è l’arena in cui l’artista si confronta con la sua inquietante passione, la creazione. La posta in gioco è pesante, si tratta di vita o di morte; Mitoraj si infila nelle reti dell’arte come ci si infila nelle reti dell’amore: non ci si può fare nulla, si subisce. L’arte non è forse, proprio come il Minotauro, una forza agente, attraente, che popola tutte le ramificazioni di questo spazio stregato e il cui esito non può essere altro che la morte? Come il mostro mezzo uomo, mezzo toro, l’arte ha qualcosa di irrefrenabilmente animale, materiale e indomabile che tenta di essere regolato e che trascende lo spirito. Questi due poli sempre in tensione, spirito e materia, gli danno il suo carattere affascinante, nel vero senso della parola.
La creazione ci assorbe nella sua spirale e svela un territorio seminato di opere in cui l’artista lotta con se stesso, diviso tra il desiderio di affrontare il Minotauro e quello di fuggire dal labirinto. Le opere sono i suoi punti di riferimento nel tempo e nello spazio, il segno della lotta condotta contro le forze antagonistiche della materia e dello spirito. Ogni scultura segna una tappa che, paradossalmente, invece di aiutare l’artista a sbarazzarsi della sua ossessione creatrice, lo fa sprofondare ancora più giù nel suo baratro.
È l’unico modo che ha un artista per misurarsi alle forze del labirinto, guidato dalla benevolenza delle muse. Più l’opera è sostenuta da un grande ideale, più egli si avvicina al centro virtuale del labirinto in cui avverrà l’incontro definitivo con la potenza agente della creazione. A quel punto si svolge l’ultimo confronto, il testa a testa con il Minotauro, incontro che ineluttabilmente si chiude con la morte. Solo questa fine può liberare lo scultore dal suo bisogno irrefrenabile di superamento. In questo ultimo scontro che somiglia più a un sacrificio, egli raggiunge le forze essenziali della creazione e diventa lui stesso Minotauro.
Il labirinto di Mitoraj è cosparso di opere che tentano di respingere l’inquietudine per trascinarci in una dolce contemplazione. Se a prima vista esse placano lo spirito, è perché rassicurano con la loro profonda e sottile ispirazione classica. Tuttavia, lo sguardo che si avventura nei meandri del labirinto scopre l’originalità di questo universo che indaga sull’arte delle sue origini e colloca l’opera di Mitoraj nella nicchia moderna che egli stesso si è creato.







































